Megaride
Là dove il
mare del Chiatamone
è più tempestoso, spumando contro le nere rocce, che sono le inattaccabili
fondamenta del Castello
dell'Ovo, dove lo
sguardo malinconico del pensatore scopre un paesaggio triste che gli fa gelare
il cuore, era altre volte, nel tempo dei tempi, cento anni prima della nascite
del Cristo Redentore,
una isola larga e fiorita che veniva chiamata Megaride
o "Megara",
che significa grande, nell'idioma di Grecia. Quel pezzo di terra s'era staccato
dalla riva Platamonia,
ma non s'era allontanato di molto: e quasi che il fermento primaverile passasse
dalla collina all'isola, per onde del mare, come la bella stagione coronava di
rose e di fiori d'aranci il colle, così l'isola fioriva tutta in mezzo al mare,
come gigantesco gruppo di fiori che la natura vi facesse sorgere, come un altare
elevato a Flora,
la olezzante dea. Nelle notti estive dall'isola partivano lievi concerti e sotto
il raggio della luna, pareva che le ninfe marine, ombre leggere danzassero una
forza sacra ed inebriante; onde il passante della riva, colpito dal rispetto
alla divinità; torceva gli occhi allontanandosi, e le coppie di amanti cui era
bello errare abbracciati sulla spiaggia, davano un saluto all'isola e chinavano
lo sguardo per non turbare la sacra danza.
Certo l'isola doveva essere abitata, nei suoi cespugli verdi, nei suoi alberi,
nei suoi prati, nei suoi canneti, dalle Nereidi
e dalle Driadi:
altrimenti non sarebbe stata così gaia sotto il sole, così celestiale sotto il
raggio lunare, sempre colorita, sempre serena, sempre profumata.
Era divina, per gli dei che l'abitavano. Ma Lucullo,
il forte guerriero, l'amico dei letterati, il primo fra gli epicurei, abituato a
soddisfare ogni capriccio, amava le ville circondate in ogni parte dall'acqua.
Egli era mortalmente stanco della sua splendida casa di Roma, della sua
villa di Baia, della sua villa di Tuscolo, della sua villa di Pompei.
Volle quella di Megaride
e l'ebbe. Egli violò la dimora delle ninfe oceanine, per farsene la propria
dimora. Egli volle per sè i prati, i boschetti di rose, i margini che
digradavano lievemente nel mare; scacciò le sirene e vi mise le sue bellissime
schiave. Fu un pianto per le grotte di corallo, tra le alghe verdi; e le Ninfe
si lamentarono con Poseidone,
che non dette loro ascolto.
Fu costruita la magnifica villa, sorsero per incanto i giardini degni di un
imperatore, nei vivai vi guazzarono le murene dalla brutta testa di serpente e
dalla carne delicata, nelle uccelliere saltellarono i più rari uccelli, pasto
di stomachi finissimi: sotto i portici della villa suonarono le cetre e le
tiorbe, in onore di Servilia,
sorella di Catone,
moglie di Lucullo,
bellissima fra le donne romane. Ivi danze festose, luminarie magiche, giochi,
banchetti, come solo Lucullo
sapeva darne. Ivi profumi di nardo, coppe di nitido cristallo, nel cui vino
generoso si scioglievano le perle; ivi toghe di porpora, pepli di bisso, gemme
splendide, corone di rose; l'eterno cantico alla bellezza ed all'amore.
Ivi accorrevano per riscaldarsi alla luce degli occhi di Servilia,
i giovanetti timidi che non osavano pronunziare parola dinanzi a lei, i
gagliardi garzoni la cui parola superava d'audacia lo sguardo, gli uomini maturi
e gravi che sorridevano ancora all'amore, i vecchioni che sospiravano la gioventù:
e Servilia
rideva, giovane e gaia, di questo incenso d'amore, rideva sempre, lusinghiera e
crudele come una sirena: e Lucullo,
placido filosofo e ancor più placido sposo godeva dei trionfi di Servilia.
Egli amava le feste sontuose, che duravano dalla sera sino ai primi albori, i
pranzi lunghissimi dove nettare si alterna a nettare, dove la fantasia del cuoco
vince quella di un poeta e fonde nel suo crogiuolo le ricchezze di un re; egli
amava conversare con i letterati, cui donava vasi d'oro e animali preziosi e
case e giardini, per provar loro la generosità di un privato.
Servilia
saliva la china ridente del piacere ed egli discendeva, tranquillo, verso la
pace della vecchiaia.
Per divertirsi, faceva scavare un canale d'acqua viva, faceva elevare una
palazzina, scacciava lontano il mare, allargando i limiti dell'isoletta di Megaride;
Servilia
si lasciava profumare dalle ornatrici, prendeva bagni di latte d'asina, portava
alle gentili orecchie due pesanti perle che le laceravano la carne, le sue
tuniche parevano tessute d'aria, i suoi sandali costavano prezzi favolosi: ed
ella, assisa davanti alla spera d'acciaio si contemplava.
Ella era nel trionfo della bellezza e della gioventù.
Gli occhi ardenti di coloro che l'amavano le davano un'aureola di fuoco, in cui
ella camminava, graziosa salamandra, senza scottarsi; i sospiri di coloro che
l'amavano, formavano attorno a lei una nuvola, in cui le piaceva di respirare.
Il mare batteva dolcemente sulle sponde di Megaride
e non osava tumultuare; il sole l'accarezzava senza violenza e le aure leggiere
ne facevano ondeggiare i fiori; nella placida luce lunare, l'isola sembrava
tutta bionda, morbida e dolce, in una infinita dolcezza d'aria e di tinte. E Servilia,
distesa sul lettuccio, vestita di stoffa tessuta d'oro, lasciandosi sventolare
dalle schiave, fremendo di piacere alla brezza marina, guardando distrattamente
la ridda delle danzatrici, mormorava fra sè: sono io, sono io la sirena! E
l'aria mormora anch'essa, dopo aver scherzato con le chiome olezzanti: è lei,
è lei la sirena.
Servilia,
quando solleva un fascio di fiori, è bella come Flora;
Servilia,
quando sceglie in un cestello una pesca matura, è bella quanto Pomona;
Servilia,
quando porta sui capelli la brillante mezzaluna e al fianco la faretra, è bella
quanto Diana;
quando, senza ornamenti, coi capelli disciolti, uscendo dal bagno, tutta
stillante profumi, si lascia asciugare dalle schiave e s'avvolge nella tunica
bianca, è... -bella come una Venere-
sussurra lo schiavo innamorato. - Più bella di Venere-
dice, col suo olimpico orgoglio , Servilia.
Il che è udito dalle attente Ninfe
oceanine e Venere
sa che Servilia
l'ha offesa, e Poseidone
questa volta dà ascolto alla preghiera della sua bella amante.
Rosicchia, rosicchia o polipo molle, rossastro, rassomigliante ad un cencio.
Incrostati, incrostati, ostrica, per minare le fondamenta! Piantati, piantati,
alga, per strappar via una zolletta di terreno! Scavate, scavate, o piccoli
animaletti del corallo! Rodi la roccia, o costante onda marina, fa un buco
coperto di arena, coperto di piante, un buco perfido, nero e profondo! Rodete,
rodete, piccole pazienti potenze del mare!
Piansero le Nereidi,
piansero le Sirene,
Venere
fu offesa e Poseidone
è in collera.
Servilia ride e gorgheggia. Lucullo
è alla sua villa di Tuscolo. Ella è stupenda di bellezza e la sua vita
è un dono altissimo. La vita dell'amore, nella ricchezza, nel lusso, nei
piaceri più delicati, nelle follie più costose.
Essere giovane, essere piena di salute, essere ricca, essere felice, essere
ammirata, festeggiata, amata, idolatrata. Ma il mare rumoreggia sordamente, la
terra si scuote, un orribile scricchiolio s'ode, un grido feroce sale al cielo,
le onde sorgono in tempesta, e l'isola Megaride
scompare nel vortice delle acque, inghiottita con la villa, coi giardini, coi
vivai, colla bellezza e l'orgoglio di Servilia.
- Libiamo agli dei infernali - disse tranquillamente Lucullo,
nella sua villa di Tuscolo, al funesto annunzio, e sparse sul terreno
alcune gocce dell'inebriante liquore.
Vuoi tu scandagliare la profondità del mare, o ardito palombaro? Sei tu stanco
delle sirene della terra? Va sulla spiaggia brulla del Chiatamone,
raccogli il tuo respiro e precipitati nelle acque: in un momento giunto al
fondo, vedrai gli archi della villa, i giardini di Lucullo
e la bellissima moglie, che è diventata la sirena del mare. Ma non ti lasciar
sedurre dalla visione e ritorna a galla, o palombaro ardito: sulla terra
troverai sirene come Servilia,
che non ti possano amare e ti facciano morire dal dolore.
da "Leggende
napoletane" di Matilde Serao