Cos’è la pizza?
La domanda può
sembrare superflua ma a pensarci bene non lo è affatto, visto il numero di
parenti più o meno stretti che la pizza conta: paste di pane appiattite,
lievitate, cotte nel forno o fritte, focacce variamente insaporite e condite
presenti nelle tradizioni regionali italiane e nella gastronomie di vari paesi
del mondo, dall’India alla Russia. Una definizione che permette di distinguere
la pizza da quel che alla pizza solo assomiglia può essere questa: “Pizza:
strato sottile d’impasto ottenuto mescolando intimamente farina di grano,
acqua, sale, lievito e (se si vuole) olio d’oliva; su questo strato, in genere
a forma di disco col bordo più spesso, si dispongono gli ingredienti prima
della cottura in forno. Gli ingredienti scelti caratterizzano sapore, aroma,
colore, consistenza dei diversi tipi di pizza a cui danno anche nome*”. Oltre
che alimento tecnicamente definibile la pizza è frutto di una storia secolare,
qua e là nebulosa, con pochi documenti, alcune supposizioni e molti dubbi: come
spesso accade alla storia “minore” della cultura materiale, della vita
quotidiana, dei cibi. Quel che è certo è che così come la vediamo e la
gustiamo – quasi sempre col pomodoro – la pizza è nata a Napoli nel
Settecento: come cibo del popolo da mangiare piegata in quattro sfamandosi per
strada, ma subito così gustosa da attirare l’apprezzamento dei re.
* Questa definizione segue, tranne che per l’indicazione di facoltatività
dell’olio nell’impasto, quella autorevolmente proposta da Rosario Buonassisi,
studioso (fra l’altro) di enogastronomia e storia dell’alimentazione.
In principio fu il fuoco
A rigore, cercando il bandolo
della matassa per dipanare la storia della pizza, si retrocede dal pane
all’agricoltura e si finisce di fronte a una delle “scene madri” della
storia dell’uomo: la “scoperta” del fuoco. È una scena immaginata e
insieme l’archetipo di migliaia di scene effettivamente svoltesi in migliaia
di luoghi e tempi diversi, intorno a un milione e mezzo di anni fa: un bosco
s’incendia e uomini affascinati e atterriti trascinano verso il campo un
tronco che brucia, attizzano braci residue, osservano quello che accade. Lo
voglia o no l’uomo, il fuoco esiste: obbedendo a una natura che già diventa
cultura i nostri remoti predecessori lo ammansiscono, lo addomesticano, infine
lo usano provocandolo per servirsene. Per illuminare grotte e accampamenti, per
riscaldare, per difendersi, per produrre strumenti, per cuocere: cotti, gli
alimenti diventano più digeribili, più conservabili, più buoni. Nel
linguaggio dell’archeologia e della paleontologia questo significa placche di
argilla bruciata ritrovate in giacimenti comprendenti anche resti litici e ossa:
tracce dei primi focolari in Africa o in Cina, molte migliaia di anni fa. Nel
linguaggio tenero e poetico del mito è Prometeo che ruba il fuoco agli dei per
darlo agli uomini che soffrono per guadagnarsi la vita.
Il primo pane
Il passo successivo è in realtà
gigantesco nella scala dei tempi e della cultura. Anche questo lo si può
immaginare con voluta ingenuità come una successione di quadri, vignette di una
sorta di storia del mondo a fumetti dal punto di vista della pizza. Mesopotamia,
“mezzaluna fertile” (dove oggi è l’Iraq), circa VIII millennio a.C., al
tempo del neolitico o età della pietra levigata: l’uomo comincia a coltivare,
seminare e lavorare la terra. Ha imparato che i semi dei cereali, che già
conosce in forma selvatica – orzo, avena, farro, miglio –, nuovamente
interrati producono dopo un certo tempo altre piante. Per impadronirsi dei
meccanismi e del calendario dell’agricoltura, dal dissodamento del suolo allo
sfruttamento dei terreni senza esaurirli, alla selezione delle specie vegetali,
occorrerà tempo (millenni): lo stesso che vedrà popoli sedentarizzarsi,
sorgere villaggi e città, definirsi pian piano quelle forme sociali complesse
che chiamiamo “prime civiltà”. Ma intanto, sfregando tra due pietre i
chicchi arrostititi di farro per liberarli dal glume (la pellicola non
commestibile che li riveste), ci si accorge che ne viene una polvere grossolana,
una farina che può essere mescolata con acqua per farne una pappa. Già si
producono ceramiche, recipienti capaci di non sciogliersi all’acqua e di
resistere al fuoco: è abbastanza naturale che si provi a cuocere
quell’impasto di acqua (o latte) e farina su una pietra rovente. La focaccia
molto bassa, non lievitata che ne risulta è il primo pane: o forse, se si sta
alla forma, la prima pizza (non lievitata e senza condimento).
Azzimo o lievitato?
Il pane nasce dunque azzimo,
come quello che oggi chiamiamo arabo, simile alla “carta da musica” dei
pastori del Nuorese, alle piadine e alle tigelle romagnole o al chapati indiano.
Con il raffinamento della farina, grazie a più accurati sistemi di macinazione,
l’impasto migliora e l’aggiunta di olio o di grasso lo rende lavorabile più
facilmente in forme diverse. Si può immaginare anche la rapida evoluzione dei
“forni”, strumento per eccellenza di panificatori e pizzaioli ante litteram:
il primo, rudimentale, nasce quando la pietra arroventata che funge da “piano
di cottura” è coperta da un vaso di terracotta a cilindro o a campana; poi si
passa a costruire una buca di pietre arroventate in cui porre l’impasto;
infine si arriva al forno a due piani, uno per il focolare e l’altro per la
cottura. Di pane preparato per speciali occasioni religiose e sacrificali, unto
in superficie con olio d’oliva o grasso fuso, parlano anche la Bibbia e le
Tavole Eugubine, documento della cultura italica antica. La parentela di questi
sottili pani azzimi – di alcuni almeno, possiamo supporre – con la pizza
moderna si accentua se si pensa che potessero essere consumati, oltre che da
soli o in accompagnamento ad altri cibi, come “base” di vivande cotte a
parte e complete d’intingolo, interpretabili come loro condimento. Questa
funzione di basi o “piatti” commestibili ha un’eco nella parola latina
mensae (da cui mensa), indicante le fette di pane della grandezza di un boccone
su cui i commensali posavano i cibi. Ma intanto, ben prima di arrivare a Roma,
interviene la rivoluzione legata al controllo del processo di lievitazione
naturale dell’impasto. Il passo si compie intorno al II millennio a. C. in
Egitto, come la Mesopotamia terra di orzo, di farro e di birra (che qui si
chiama zythum), ed è proprio lo sforzo di migliorare il metodo di produzione
della birra a dare l’impulso. È probabile però che la prima scoperta sia
stata casuale: basta che un impasto di acqua e farina sia dimenticato per
qualche tempo in un luogo caldo e buio perché i lieviti naturali presenti
nell’aria inducano una fermentazione. La pasta lievitata, gonfia e dallo
strano sapore acidulo, avrà suscitato all’inizio sospetti e cautele: cotta,
si trasforma in un pane più soffice, appetitoso e leggero, che i popoli
stanziali mostreranno presto di preferire.
Antenati classici
In Egitto pane, focacce,
schiacciate e simili occupavano un ruolo essenziale nell’alimentazione
quotidiana, come dimostrano le “liste di offerte” che i defunti portavano
con sé per le necessità dell’oltretomba, dipinte o scolpite nelle pareti
delle camere funerarie: esistevano 15 nomi diversi per designare i diversi tipi
di impasti di pane e un catalogo del Nuovo Regno enumera almeno 40 varietà di
pani e di dolci. Si sa che per il genetliaco del faraone si mangiava una
schiacciata aromatizzata con erbe speciali e che, mentre la birra era ancora
prodotta in casa, il lavoro del fornaio era svolto come professione distinta.
Nella Grecia classica si ha notizia addirittura di una settantina di tipi di
pani diverso, con nomi distinti per forme, tipo di cereale usato, altri
ingredienti, tipo di cottura: differenziazione legata in parte a usi specifici
nei riti riservati agli dei. Maza è l’antico nome greco per focaccia. A Roma
l’arte della panificazione arriva (come molte altre cose) per il tramite
dell’Ellade conquistata. Verso il 200 a.C. i mugnai sono già diventati
fornai, ovvero panificatori pubblici o pistores (parola di cui resta il ricordo
in alcune espressioni dialettali), riuniti in associazione di mestiere. Placenta
e offa sono i termini generici con cui si indicano le focacce, preparate per lo
più con acqua e orzo. Dei molti tipi di pane prodotti nell’Urbe almeno tre
mostrano un’innegabile, anche se non del tutto precisabile parentela con la
pizza: uno è descritto come adipatus, cioè condito con lardo (non si sa se
nell’impasto prima dell’infornata o dopo, in forma di fettine disposte in
superficie); del secondo, lo strepticius, si sa che era una sfoglia impastata da
farina, latte, olio di oliva e pepe e cotta su una pietra arroventata; ma è
soprattutto il nome del terzo, l’artolaganum, a indurre stimolanti
supposizioni. Sembra infatti derivare dalle parole greche artos, pane lievitato
(anche non di frumento) e laganon, impasto di acqua e farina steso in una
sfoglia sottile. Si parla di supposizioni perché nessuno di questi tipi di pani
o “protopizze”, destinati presumibilmente al consumo del popolo, è
descritto in dettaglio dagli autori antichi che nei loro scritti si occupano
anche di alimentazione. Pochi dubbi però che qualcosa di assai simile alla
pizza sia consegnato alla posterità dalle culture classiche affacciate sul
Mediterraneo.
Il medioevo o l’apporto delle risorse locali
Non sempre le cose importanti
si svolgono alla luce del sole, com’è noto: non è dunque strano – giocando
un po’ con le parole – che quelli che un tempo si definivano i “secoli
bui” del medioevo abbiano svolto un ruolo sotterraneo e creativo anche nel
caso della pizza. Sotterraneo perché di pizza, esplicitamente, si continua a
non parlare; creativo perché in un periodo di disgregazione o collasso di
strutture pubbliche e di incerti rifornimenti è lecito pensare che pani,
focacce e schiacciate della tradizione siano stati via via arricchiti per
apporto dell’iniziativa e dell’inventiva personale, sulla solida base delle
risorse locali. Ecco così che formaggio, acciughe, sardine, cipolle, semi ed
erbe aromatiche varie, funghi si sposano all’impasto, insieme al quale,
spesso, vengono cotti. Per lo spessore si tratta ancora di focacce, o torte
rustiche, ma l’aderenza al concetto di pizza è sempre più evidente. Dai
longobardi, calati in Italia e saldamente stabiliti nel Sud viene intanto la
bufala, che si acclimata presto tra Lazio e Campania: premessa della mozzarella.
Si noti che di questi cibi “plebei”, poveri per ingredienti ma ricchi per
gusto e spesso geniali per accostamenti gastronomici non si parla o quasi nelle
fonti scritte: né nei secoli del medioevo, né nei manuali che insigni
gastronomi vergano per la delizia delle corti rinascimentali, né nei più
domestici, successivi ricettari scritti a uso di “privati”. Ben oltre i
secoli di mezzo si situano comunque due altri sviluppi strategici per
l’evoluzione della pizza. Nel Settecento, dopo quasi quattromila anni in cui
le tecniche di panificazione sono rimaste sostanzialmente invariate, mulini a
cilindri d’acciaio sostituiscono i vecchi mulini a palmenti: ne risultano
farine più raffinate, bianchissime, composte quasi solo della parte centrale
amidacea (mandorla) del chicco. Sono farine dieteticamente impoverite, ma
vincenti. Il secondo evento, che si situa alla fine del Settecento o anche dopo,
è l’incontro col pomodoro.
Per il popolo e per il Re
Il pomodoro viene dall’America, la pizza ci andrà. Ma è a Napoli che tutto si svolge. Nella capitale miserabile e splendida del Regno ancora spagnolo, la pizza è di casa già dal Seicento. È ancora senza pomodoro, “bianca”, condita solo con aglio, strutto e sale grosso nella versione più economica, o con caciocavallo e basilico nella più ricca “mastunicola”; ne esistono anche, il che non stupisce, prime versioni “alla marinara”. È però nel corso del Settecento, quando il pomodoro entra trionfalmente nella cucina campana (e in parte italiana), che nella città ormai dei Borbone la pizza si afferma in una forma sempre più vicina a quella che conosciamo fino a diventare, in breve, uno dei piatti preferiti dal popolo. E non solo: sembra che Ferdinando I di Borbone, amante dei cibi semplici, assaggiasse le pizze della bottega di Antonio Testa detto n’Tuono e se ne appassionasse talmente da tentare, invano (per l’opposizione della consorte Maria Carolina d’Austria), di farle inserire nell’elenco delle vivande ufficiali di corte. Segno di una predilezione anche aristocratica e insieme del perdurante snobismo per cui la pizza, che pure conquista con straordinaria rapidità tavole e palati, non è ancora ritenuta degna di figurare nei trattati di gastronomi e chef. Insieme alla pizza si definiscono i modi e i luoghi per mangiarla, il che riporta alle autentiche radici popolari e “sociali” di questo cibo destinato a fortune mondiali. Nel Settecento a Napoli la pizza si mangia soprattutto per strada ed è preparata da umili venditori per una clientela altrettanto o più umile, con pochi orari e pochi luoghi di lavoro fisso. La pizza, in questo, ha vantaggi insuperabili: è nutriente e appetitosa, costa poco per chi la vende e per chi la compra (niente olio d’oliva da cambiare almeno ogni tanto come per le fritture, niente piatti da possedere e lavare), è pratica: basta piegarla in quattro, “a libretto”, ed ecco un pasto buono e comodo, che riamane gradevolmente caldo senza scottare. Solidi motivi per battere la concorrenza degli spaghetti che una certa (stucchevole) tradizione oleografica ci mostra tenuti ben alti nella mano, ricadenti verso la bocca dello scugnizzo affamato. La concorrenza è poi sbaragliata quando la pizza comincia a essere condita con sughi simili a quelli della pasta, a base di pomodoro ma più densi, con un po’ di mozzarella al posto del formaggio grattugiato: diventa allora, ormai definitivamente “rossa”, altrettanto varia, saporosa, profumata di maccheroni e vermicelli.
Pizze e pizzerie
Nel Settecento la pizza viene
dunque cucinata nei forni a legna delle botteghe (che spesso fungono anche da
abitazione) e venduta poi in banchi all’aperto o lungo le strade e i vicoli
della città: un garzone porta in equilibrio sulla testa la “stufa” in cui
stanno in caldo le pizze, diverse per condimenti e ingredienti, e le consegna
direttamente ai clienti “a domicilio”, in casa o per strada,
preannunciandosi con chiassosi, inequivocabili richiami. Ma a cavallo con
l’Ottocento le abitudini prendono a cambiare: comincia ad affermarsi
l’usanza di mangiare la pizza presso i forni in cui è preparata, oltre che a
casa o per strada. È un segno del favore crescente della vivanda, entrata ormai
a pieno titolo nelle abitudini alimentari dei napoletani, ma è anche la nascita
della pizzeria nella forma che conosciamo, coi suoi inconfondibili caratteri
fisici e “ambientali”: il forno a legna, il bancone di marmo dove viene
preparata la pizza con gli ingredienti per la farcitura in bella mostra su uno
scaffale, i tavoli dove i clienti la gustano, l’esposizione esterna di pizze
vendute ai passanti: tutti elementi che si ritrovano nelle pizzerie napoletane
di oggi. Nel 1780 viene fondata la pizzeria “Pietro e basta così” la cui
tradizione, a due secoli di distanza, è continuata dall’Antica Pizzeria
Brandi: può essere considerata la prima, in senso moderno (anche se per altri
bisogna aspettare per questo il 1830 e la nascita della pizzeria Port’Alba).
Nel 1889, verso la fine di un secolo in cui i pizzaioli hanno rifornito il
popolo di pizza di qualità ormai svariate, arriva una seconda e più importante
approvazione reale. Adesso c’è l’Italia ed è il tempo dei Savoia. A sua
maestà Umberto I e alla consorte regina Margherita, che in visita a Napoli
hanno espresso il desiderio di assaggiare la pizza, il pizzaiolo Raffaele
Esposito della pizzeria “Pietro e basta così” ne offre tre: la
“mastunicola” (sopravvissuta pizza “bianca”), la pizza alla marinara
(pomodoro, aglio, acciughe, olio d’oliva), la pizza pomodoro e mozzarella
(pomodoro, aglio mozzarella, basilico, olio d’oliva). La regina in particolare
le apprezza talmente, soprattutto la pizza alla mozzarella, da voler ringraziare
ed elogiare per scritto l’artefice: documento, a firma “devotissimo Galli
Camillo, capo dei servizi di tavola della real casa”, che ancora
religiosamente si conserva presso l’Antica Pizzeria Brandi. Come unica forma
di ringraziamento possibile Esposito dedica la pizza alla mozzarella alla
regina, ribattezzandola Margherita. Da allora, per tutti, si chiama così.
Da Napoli all’Italia
Nonostante l’imprimatur della
real Casa, la diffusione della pizza fuori dai confini di Napoli non è veloce
come si potrebbe pensare. La conquista dell’Italia, per una volta incruenta,
si svolge anzi abbastanza lentamente dagli inizi del Novecento allo scoppio
della seconda guerra mondiale. La pizza continua a essere ignorata dai
ricettari, che pure si rivolgono a un pubblico sempre più largo, così come dai
gastronomi ufficiali; le pizzerie, intanto, cominciano ad aprire un po’
ovunque e la pizza perde in parte il suo connotato di alimento povero per
legarsi piuttosto a un significato di svago, di divertimento soprattutto serale.
Tra le due guerre l’abitudine di mangiar fuori non è però troppo diffusa; si
cucina e si mangia in casa e la pizza la si va spesso a prendere avvolta in
strofinacci perché non raffreddi. Comunque non è più, come in parte alle
origini, il cibo di mezza giornata di chi lavora: gli impiegati hanno il tempo
di tornare a casa per la pausa del pranzo e gli operai mangiano sul luogo di
lavoro quel che portano con sé. Le cose cambiano nel dopoguerra. Passati e in
parte dimenticati – per volontà, per necessità – i disastri della guerra,
la voglia di ricominciare a vivere è forte. I locali che offrono la possibilità
di pranzare o cenare a buon prezzo si affollano e le pizzerie si moltiplicano in
tutte le città, anche in centro. Dopo non molto, sul finire degli anni
Cinquanta, arriverà il boom economico che significherà nuovo lavoro, nuovo
benessere, nuovi consumi, e anche grandi spostamenti e mescolanze di persone e
culture per effetto dell’emigrazione interna. Dai primi anni Sessanta,
l’avvento delle pizzerie diventa un fenomeno di massa; anche per suo effetto,
una nuova generazione di pizze legate all’interpretazione di piatti della
tradizione gastronomica nazionale, che è sempre o quasi legata alle cucine
regionali, si affianca alle pizze classiche. Il resto, pizze al trancio e pizze
industriali comprese, appartiene all’esperienza dell’oggi.
All’estero in cerca di fortuna
Intanto però, assai per tempo,
la pizza è approdata oltre oceano. Lo sfondo è quello della “grande
emigrazione”, gigantesco movimento che porta nell’arco di circa un
trentennio, dal 1875 alla prima guerra mondiale, milioni e milioni di italiani a
lasciare il paese, provenienti, a partire dal nuovo secolo, soprattutto dalle
regioni del Sud e diretti soprattutto verso le Americhe. Tra il 1901 e il 1915
gli emigranti dalla sola Campania sono quasi un milione. Chi lascia casa per gli
Stati Uniti porta con sé la propria cultura anche alimentare, oltre alle
proprie nostalgie e alla voglia di guadagnarsi la vita: la pizza, che si presta
bene a esprimere affetti e bisogni, guadagna subito grande favore. La prima
pizzeria apre i battenti a New York nel 1895. Anche all’ombra della statua
della Libertà la pizza si afferma come cibo appetitoso e nutriente, economico
per chi lavora, tanto da diventare nel giro di pochi decenni, insieme alla
pasta, uno degli alimenti più popolari negli Stati Uniti (e poi in Canada). Né
si può dire che il passaggio la stravolga: qualche ingrediente è più
difficile da trovare ma l’impasto è sostanzialmente lo stesso. I pizzaioli
(come tutti) sono prima italiani, poi oriundi, poi americani d’origine
italiana, poi, spesso, americani e basta. In parte per ragioni climatiche e di
difficile reperibilità degli ingredienti, la pizza non riscuote uguale fortuna
nell’America Latina, e lo stesso accade tra le due guerre nei paesi
dell’Europa, in cui le comunità italiane sono meno numerose e le culture
d’accoglienza, forse, meno permeabili e “aperte” rispetto a quella
americana: il fascismo e le politiche dell’autarchia non facilitano le cose.
Tutto cambia con la fine della guerra. La pizza viaggia ancora insieme agli
italiani che si trasferiscono o semplicemente lavorano all’estero, o aspetta
chi a sua volta viene nel nostro paese per lavoro o (a milioni) per turismo. I
suoi profumi, la sua fragranza, i suoi colori conquistano tutti o quasi. La
pizza si afferma come uno dei simboli della cucina italiana, probabilmente il più
conosciuto e amato nel mondo.
La pizza tra cultura gastronomica e fast-food
Il quadro attuale della
produzione e del consumo di pizza è vario, aperto agli sviluppi e ai problemi.
La pizza non è più solo quella che esce dal forno a legna della pizzeria e che
si mangia bevendo vino o birra nel tavolo accanto. La nascita e la diffusione
della pizza d’asporto (l’espressione è brutta ma non c’è di meglio)
appartengono ormai al passato, anche se prossimo: relativamente nuovi sono
semmai i servizi di consegna a domicilio, specie nelle città, per cui la pizza
arriva direttamente a casa: non più nella “stufa”, in equilibrio sulla
testa del garzone, ma a bordo di un motorino che sguscia nel traffico. Si
tratta, senza dubbio, di una spinta verso l’aumento del consumo domestico.
Nello stesso senso, ma con implicazioni ben più problematiche, va il rapido
sviluppo delle pizze industriali. Il processo è in corso ma ha già una storia:
si è partiti da confezioni contenenti tutti gli ingredienti e le istruzioni per
la preparazione della pizza a casa (forno permettendo); si è passati alle pizze
precotte, totalmente o parzialmente, surgelate o conservate sotto vuoto, che
basta scaldare (anche nel forno a microonde) perché siano pronte; oggi, in vari
supermercati, si reclamizzano e si vendono basi di pasta lievitata e in parte
precotta che ognuno può completare a casa con gli ingredienti che vuole,
tenendo in forno solo quanto basta perché gli ingredienti cuociano. Queste
pizze, per quanto ben fatte, non sono paragonabili a quelle che escono da un
forno a legna, frutto dei tempi e dell’arte di un pizzaiolo vero; in più, non
c’è dubbio che tolgano lavoro ai pizzaioli e clienti alle pizzerie. Il
problema è complicato, non solo economico, certamente non riducibile a
nostalgie o moralismi sui tempi antichi. Il contesto è quello, sotto gli occhi
di tutti, della rapida omologazione anche dei cibi, dell’eliminazione delle
diversità che i tempi e le regole del mercato sembrano non consentire, della
velocità che in questo caso si chiama fast-food; è però contemporaneamente
quello della difesa delle “tipicità agroalimentari”, delle IGT e dei DOP,
delle produzioni da agricoltura integrata o biologica che si offrono in
alternativa ai prodotti del consumo industriale di massa, della cultura
gastronomica che si sforza di distinguere, di “rallentare”, di difendere
cibi, piaceri (anche mestieri). È una concorrenza che ha per posta nuovi spazi
economici e culturali, e per tema l’ecologia e la qualità della vita. Da
questa specie di competizione la pizza non è risparmiata, anzi. È difficile
per lei, nata come cibo saporoso e “immediato”, economico e per tutti,
muoversi tra fast-food e slow food, tra gusti generali e nicchie di mercato. Così
com’è difficile per le pizzerie ritrovare un carattere e un sapore rispetto a
bar, birrerie, tavole calde, fast-food, locali etnici, trattorie, ristoranti:
soprattutto rispetto a se stesse.
Ma un cibo non è uguale a un altro e una pizza fatta a “regola d’arte”
(espressione da intendersi in significato letterale), con le giuste farine, il
giusto impasto, i giusti tempi e le giuste fasi di lievitazione, il giusto forno
alla giusta temperatura, gli ingredienti che ci vogliono o si vogliono, che
lascia chi la gusta soddisfatto e leggero, non è la stessa cosa di una pizza
malcotta, mal lievitata, dura o gommosa, poco appetitosa e un po’ indigesta. Né
il primo pizzaiolo ha lo stesso mestiere, le stesse conoscenze (la stessa
formazione ed esperienza) dell’altro. Non si tratta di difendere in astratto
le tradizioni contro la modernità: tutte e due, modernità e tradizioni,
richiedono scelte intelligenti. Non sono pochi gli aspetti della modernità (si
pensi solo alle attrezzature e al contesto igienico della lavorazione) in grado
di esaltare un alimento la cui origine, come si è visto all’inizio di questa
breve storia, rimanda al fuoco, ai semi, alle farine, alla fame e al piacere del
cibo: come a dire ai fondamenti della presenza dell’uomo nel mondo.
tnx to PizzaUp