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YETI - BIGFOOT

Il Bigfoot (letteralmente "piedone"), conosciuto anche come "Sasquatch", "Momo" ed in molti altri modi e' insieme allo Yeti,l'"uomo-scimmia" piu' famoso. Il Bigfoot e' stato avvistato in tutta l'America del Nord su montagne, paludi, foreste, nonche' su strade piu' o meno deserte e campi coltivati.Mentre il suo comportamento sembra variare nelle testimonianze da docile a curioso a spaventoso, la sua apparenza raramente muta: descritto come un animale massiccio, alto circa duecentotrenta centimetri e pesante duecentoventi chili sarebbe coperto da una folta pelliccia il cui colore varierebbe dal castano scuro al marrone, nero, rosso, grigio e persino bianco. Lascerebbe caratteristiche impronte al suo passaggio, molto piu' larghe di quelle umane e che presentano una distribuzione del peso diversa da quella dell'uomo, essendo distribuita uniformemente su tutta la pianta (come per i piedi piatti). A volte le impronte hanno cinque dita, altre volte tre, come ad indicare la presenza di almeno due varieta' di Bigfoot (anche se la stragrande maggioranza delle impronte presenta cinque dita). Il Bigfoot, al pari dei suoi meno famosi "cugini", camminerebbe in posizione eretta. I suoi occhi sarebbero nella maggior parte dei casi gialli, anche se alcuni testimoni asseriscono di aver visto Bigfoot con gli occhi rossi. Sembra che seppure essi non comunichino per mezzo di un vero e proprio linguaggio emettano spesso e volentieri dei suoni gutturali o anche acuti.Alcuni sostengono che la leggenda moderna del Bigfoot sia nata in America nel 1958, nella Bluff Creek Valley, in California, quando un operaio a nome Jerry Crew scopri' una serie di enormi impronte lasciate nel fango rimosso dal suo escavatore. Queste tracce erano state notate per settimane dagli operai ma per la prima volta essi decisero di farne un calco. In realta' gli avvistamenti di Bigfoot sono molto piu' antichi. Quasi ogni tribu' di pellerossa possiede leggende su creature simili al Bigfoot. A quanto sembra, anche i primi esploratori videro queste creature. Anche per i Bigfoot (come per altri uomini-scimmia) si riportano casi di rapimento, nei quali le vittime (come Albert Osman nel 1924) asseriscono di essere state trattate bene ma di essere state segregate e di aver dovuto escogitare qualche tipo di trucco per riuscire a fuggire (nel caso specifico Osman offri' il suo tabacco al maschio e quando questi inizio' a tossire egli approfitto' del fatto che tutti gli altri membri del nucleo - tre, stando alla sua testimonianza - si erano distratti).Molto famoso e' il filmato che ritrae una femmina di Bigfoot che cammina verso la foresta, ripresa da Roger Patterson durante una spedizione nella zona di Bluff Creek. Patterson affermo' fino alla morte (avvenuta nel 1972) che si trattava di un filmato autentico.

 


 

YETI - DEL TIBET

 

Il nome Yeti viene dal termine "yeh-teh" che in Sherpa "quella cosa". Chiamato anche l'abominevole uomo delle nevi, fa parte delle credenze tibetane da secoli. Si dice che sia grande quanto il Bigfoot americano, cioe' tra i centottanta centimetri ed i duecentoquaranta, con una folta pelliccia di colore marrone scuro, nero o rossastro che ne ricopre quasi completamente il corpo. I capelli sono lunghi fino alle spalle ed il viso, i denti e la bocca sono molto larghi. La forma della sua testa e' conica, e le sua braccia sono molto lunghe, fino alle ginocchia. Le impronte che gli sono state attribuite sono anch'esse enormi (fino a sessanta centimetri) e molto larghe. I nativi affermano che ci sarebbero due tipi di Yeti, i "Dzu-teh" (cosa grossa) ed i "Meh-teh" (cosa umana che non e' un uomo), i primi alti dai duecento ai duecentoquaranta centimetri, i secondi dai centocinquanta ai centottanta centimetri. I Meh-teh vengono avvistati piu' frequentemente dei Dzu-teh. Le prime impronte dello Yeti furono scoperte da un occidentale nel 1889 ed esattamente dal maggiore L.A. Waddell a piu' di cinquemila metri di quota. I suoi Sherpa lo informarono che le strane impronte che erano impresse sulla neve erano dell' "uomo selvaggio ricoperto di peli" che viveva in quell'area. Nel 1921 il Luogotenente Colonnello C.K. Howard-Bury stava conducendo una spedizione sul monte Everest. A circa seimila metri di quota, sul lato Sud della montagna il gruppo individuo' numerose impronte tre volte piu' larghe di quelle umane. Gli Sherpa identificarono le impronte con quelle di un meh-teh. Howard-Bury capi' male e penso' che la parola fosse metoh-kagmi. Un giornalista le tradusse erroneamente in "abominevole uomo delle nevi" e l'espressione rimase in voga. Nel 1925 un fotografo inglese della Royal Geographic Society di nome N.A. Tombazi testimonio' di avere avvistato, vicino al ghiacciaio del Zemu, a quattromilacinquecento metri di quota, e ad una distanza di trecento metri circa una figura che pareva a prima vista essere un uomo. Camminava eretto e si fermava occasionalmente per sradicare delle pianticelle di rododendro nano. Era di colore marrone e non era visibile alcun iindumento. Successivamente sulla zona vennero ritrovate sedici impronte. Durante il novembre del 1951, Eric Shapton e Michael Ward stavano ritornando da una spedizione esplorativa dell'Everest ed erano intenti a studiare la testa del ghiacciaio Menlung a 6900 metri, vicino alla frontiera tra Nepal e Tibet. Scesi a 6250 metri individuarono una serie di impronte fresche nella neve alta. Furono in grado di seguire queste impronte per un miglio circa lungo la cresta del ghiacciaio. Le impronte li condussero verso quote minori, con neve piu' bassa, nella quale le impronte erano maggiormente definite. Shipton scatto' due foto che sono sicuramente le piu' famose.

Nel 1954, una spedizione del London Daily Mail esamino' un presunto scalpo di yeti che si diceva fosse vecchio di trecento anni. Quattro anni dopo, nel 1958, una spedizione durata vari anni e guidata da Tom Slick esamino' lo scalpo e delle supposte mani di Yeti. Una di queste, proveniente da una Lamasseria di Makulu risulto' essere di un leopardo delle nevi ma l'altra non fu screditata e potrebbe quindi essere la prova dell'esistenza dello yeti. La mano fu ottenuta nel 1959 da Peter Byrne che era membro della spedizione di Slick ed e' ora a capo del Centro di Ricerca sul Bigfoot. Byrne fu ammesso nella Lamasseria di Pangboche, in Nepal dove supponeva che si trovasse un'altra mano di Yeti. Byrne aveva portato con se' il pollice e l'indice di una mano umana che sostitui' a quelli della mano (che riusci' ad esaminare da solo). Le parti originali furono trasportate dall'India a Londra e consegnate a John Hill che ad un primo esame dichiaro' che erano umane, salvo poi ricredersi quasi subito e dichiararle "non totalmente umane", forse di un uomo di Neanderthal. Lo zoologo Charles A. Leone esamino' i reperti ma non fu in grado di catalogarli e l'antropologo George Agogino ritenne che non fossero umane ma che presentassero forti caratteristiche antropoidi. L'esame del sangue dimostro' che non erano ne' umane ne' di primati conosciuti. Purtroppo si sono perse le tracce dei reperti e non si conosce il luogo dove si trovano attualmente. Nel 1970, sul Monte Annapurna uno scalatore inglese di nome Don Whillans stava cercando un posto dove accamparsi quando senti' degli strani suoni, simili ad urla. Il suo Sherpa lo informo' che erano il richiamo dello Yeh-Teh e Whillans vide una figura scura in un punto abbastanza distante da dove si trovava lui in quel momento. Il giorno successivo scopri' delle impronte profonde quasi mezzo metro nella neve. Quella notte avverti' la presenza della figura che aveva visto il primo giorno, usci' dalla tenda e vide lo Yeh-teh alla luce della Luna. Era un animale simile ad una scimmia che scappo' immediatamente. Whillans fu in grado di seguirlo con il binocolo per piu' di venti minuti prima che sparisse nel buio. Due anni dopo, nel dicembre del 1972, una spedizione guidata da Edward Cronin aggiunse un altro tassello alla leggenda dello Yeti. La spedizione stava svolgendo delle ricerche in una valle fluviale nel Nepal orientale, dove varie rare piante esotiche ed animali erano si erano evoluti separatamente ed indisturbati. I membri della spedizione stavano campeggiando in una depressione a quota 4000 metri nella zona del Monte Kongmaa La. Howard Emery, il fisico della spedizione scopri' una mattina delle impronte di un essere bipede tra le tende dell'accampamento. Le impronte erano lunghe diciotto ventitre centimetri circa e larghe dodici centimetri. Mostravano un largo alluce opponibile ed una disposizione asimmetrica delle rimanenti quattro dita, nonche' un largo tallone arrotondato. Essi furono in grado di seguire le impronte per un po', finche' queste sparirono una volta arrivati in un territorio roccioso nel quale i membri della spedizione faticarono molto ad avventurarsi.

 


 

YETI - GLI ARTICOLI

Lo Yeti è sicuramente l'animale misterioso per antonomasia. Altrimenti chiamato "abominevole uomo delle nevi", esso abiterebbe le inospitali regioni himalayane. Le prime notizie sulla sua presunta esistenza sembrano risalire a oltre quattrocento anni fa. Tuttavia, l'interesse nei suoi confronti ha cominciato a svilupparsi a partire dal secolo scorso.
Il nome Yeti deriva dal termine Sherpa "yeh-teh" che significa "quella cosa". Si tratterebbe di un essere di altezza compresa tra 1.80 e 2.40 metri, ricoperto di una folta pelliccia di colore marrone scuro, nero o rossastro. Avrebbe una lunga capigliatura e braccia lunghe fino alle ginocchia. Secondo gli abitanti del Tibet esisterebbero due tipi di Yeti: il Dzu-teh (che significa cosa grossa), più alto, e il Meh-teh, di altezza più ridotta.
Le uniche "prove" a favore dell'esistenza dello Yeti sono costituite da impronte, testimonianze di avvistamenti e, in certi casi, reperti anatomici.
Il ritrovamento delle prime impronte risale al 1889, quando il maggiore L. A. Waddell, avvisato dai suoi Sherpa, osservò delle enormi impronte impresse nella neve a oltre 5000 metri di quota. Nel 1921, durante una spedizione sull'Everest, furono individuate altre impronte sul lato meridionale della montagna a circa 6000 metri di quota. Nel 1951, un'altra spedizione individuò numerose impronte che proseguivano per circa un miglio. Queste impronte vennero accuratamente fotografate e ampiamente pubblicizzate. Nel 1972, ulteriori impronte furono individuate da una spedizione guidata da Edward Cronin. Esse mostravano un largo alluce opponibile e una disposizione asimmetrica delle rimanenti quattro dita.
Nel 1925 il fotografo inglese N. A. Tombazi, della Royal Geographic Society, affermò di avere avvistato uno strano essere vicino al ghiacciaio del Zemu, a quattromilacinquecento metri di quota. L'essere aveva sembianze umane, camminava eretto, era di colore marrone e aveva un folto pelo. Nella zona dell'avvistamento furono trovate numerose impronte.
Nel 1970, sul Monte Annapurna uno scalatore inglese di nome Don Whillans, allertato da strani suoni simili a urla, vide una figura scura simile a una grossa scimmia che scappò immediatamente, ma che Whillans riuscì a osservare con un binocolo per più di venti minuti prima che scomparisse.
Nel corso degli anni, oltre alle impronte e alle testimonianze, sono emersi alcuni reperti anatomici che confermerebbero l'esistenza dello Yeti. Nel 1954, una spedizione del London Daily Mail esaminò un presunto scalpo di yeti che sarebbe stato vecchio di trecento anni. Nel 1958, un'altra spedizione esaminò lo stesso scalpo insieme a supposte mani di Yeti. Sull'autenticità di tutti questi reperti sono stati avanzati seri dubbi e, in almeno un caso, si è scoperta una palese falsificazione. Una delle presunte mani dello Yeti è, infatti, risultata essere una zampa di leopardo delle nevi opportunamente contraffatta.

Silvano Fuso

 

 
Falsi riguardanti lo Yeti. All'esame del Dna sono risultati essere lo scalpo di una capra e la zampa di un orso -foto Corbis-
Durante le riprese di un documentario televisivo nel Buthan, sul versante orientale della catena dell'Himalaya, una troupe ha trovato una ciocca di peli impigliata nella corteccia di un cedro che, all'esame del Dna, non sono risultati appartenere all'uomo né ad alcuna specie animale conosciuta. I risultati dell'esame del materiale genetico sono pubblicati sulla prestigiosa rivista New Scientist, che prende in considerazione l'esistenza del mitico "Uomo delle nevi", lo Yeti. La ciocca è stata analizzata dai ricercatori dell'Istituto di medicina molecolare di Oxford. "Non appartiene al genere umano" ha dichiarato Bryan Sykes, affermato docente di genetica, conosciuto soprattutto per avere estratto per la prima volta il Dna dalle ossa. "Possiamo tranquillamente affermare - ha aggiunto Sykes - che non è appartiene a un orso né di altri animali a noi già noti e che quindi avremmo potuto identificare. E' la prima volta che ci troviamo di fronte a un Dna che nonostante tutte le ricerche effettuate rimanga sconosciuto". Già in passato era accaduto che peli di vario tipo, rinvenuti in quella stessa zona, venissero attribuiti al leggendario yeti, ma alla fine era sempre stato dimostrato che si trattava di peli di maiali selvatici. In un'altra occasione, sempre nel Buthan, venne trovato anche un lembo di pelle e anche in quel caso si pensò allo yeti, ma all'esame del Dna il tessuto si rivelò essere appartenuto ad un orso. Robert McCall, biologo dell'Università di Oxford, afferma che nello stessa corteccia del cedro sono state individuate delle particolari lacerazioni, probabilmente provocate da un artiglio. Nelle immediate vicinanze, aggiunge McCall, sarebbero state individuate, inoltre, alcune strane impronte di zampe sinistre, dal tallone stretto e senza artigli. Per giunta questa volta ci sarebbe anche un testimone oculare, Druk Sherrik, il quale giura di aver "incontrato una creatura alta circa tre metri, con la faccia rossa e un naso simile a quello di uno scimpanzé".

Silvia Podda

 

CASSINA (Milano) - Alle ore 5.42 del 19 Dicembre 1997 sotto una bufera incalzante, un nugolo di sei ragazzi sprovvisti di visto si sono imbattuti in qualcosa di starordinario ed enormemente grosso. Una scoperta che potrebbe reggere il confronto solo con la pietra filosofale. Infatti dopo gli innumerevoli falsi avvistamenti sulla catena Himalayana, non documentati e spesso compiuti da autoctoni o comunque da abitanti del luogo interessati ad un incremento del turismo, finalmente ci sono state portate le inconfutabili prove dell'esistenza dello Yeti. Il fatto ancora più straordinario è il luogo del ritrovamento: un piccolo campo agricolo della Brianza. Dall'unico particolare visibile nella foto che uno dei ragazzi ha scattato fortuitamente mentre cercava di toccarsi l'alluce col pollice passando di dietro, gli scienziati sono riusciti ad elaborare un modello tridimensionale dell'animale, se così si può definire. A poche ore dal ritrovamento tutto il territorio entro 200 Kilometri e 256 metri era stato evacuato ma il panico serpeggiava tra la popolazione soprattutto dopo la notizia della morte di Caloggero 'o Scassacazzu, fabbro originario di Aosta ma di origini scandinave. Il suo cadavere è stato ritrovato in un lago di sangue con una pistola per mancini accanto alla mano sinistra e il cranio squarciato da una pallottola, le vene del polso destro erano state tranciate di netto come da un rasoio Sensor Excel ed accanto al braccio destro era stato ritrovato un rasoio modello Sensor Excel, i polmoni erano pieni d'acqua e l'epidermide mostrava un colorito violaceo quasi come se fosse affogato o se avesse fumato una sigaretta di troppo, una corda legata attorno al collo pendente dal soffitto, dettaglio che ha alquanto stupito il magistrato Cazza Neega dato che il cadavere era stato ritrovato in mezzo ad un campo, delineava il grande ingegno del fabbro morto nel compimento del suo lavoro. Tutti questi evidenti dettagli hanno facilmente indirizzato gli inquirenti a sospettare una violenta colluttazione con il mostro. Ma quali sono le conclusioni a cui sono giunti gli studiosi analizzando la foto e i miseri resti in loro possesso? Ebbene, l'entità fotografata, rappresentante solo il centro nevralgico (capisci) della bestia misurava la bellezza di due metri e trenta centimetri (come una persona e mezza, o due persone se una è Sala) ed un peso complessivo di 213 Kilogrammi (come quattro persone con una gamba alzata che dicono in coro "Miserere"). La polizia ha avvertito la popolazione del pericolo distribuendo l'identikit raffigurante lo yeti sfallato: cicatrice sulla guancia sinistra, pelle nera, sguardo bieco, benda sull'occhio e monosopracciglio lungo venti centimetri; chi lo conosce lo evita, ma non lo conosce nessuno, per questo continua a mietere vittime per ritrovare la sua metà mancante (come Peter Pan che cercava la sua ombra). La sua furia è cresciuta dal giorno dello smembramento ed ora è più pericoloso che mai.

Liceo B. Giordano

 


 

YETI - MESSNER

 


Reinhold Messner
"
Yeti, leggenda e verità"
"Feltrinelli Traveller"

La quarta di copertina:

Reinhold Messner e lo yeti, un'avventura durata vent'anni. Straordinarie spedizioni alle pendici dell''Himalaya sulle tracce della magica figura che da secoli fa sognare Oriente e Occidente: l'"uomo delle nevi", animale che vive ad alta quota, corre veloce sui ghiacci, dorme all'aperto nelle bufere, ma è anche mostro mito, mito, immagine di lontane spiritualità. Ventimila chilometri di marcia tra le montagne più alte del mondo, per sfatare una leggenda e svelare un antico mistero.

Ringraziamenti

Reinhold Messner è uno dei più famosi alpinisti ed esploratori dei nostri giorni, è nato a Villnöss in Alto Adige nel 1944. E' stato il primo a scalate 14 ottomila, conquistando inoltre la vetta dell'Everest senza bombole di ossigeno. Ha attraversato a piedi la Groenlandia, l'Antartide, il Tibet occidentale. E' anche autore di numerosi libri, alcuni dei quali diventati best seller, tra cui ricordiamo: Everest (1983), Sopravvissuto: I miei 14 ottomila (1987), Antartide. Inferno e paradiso (1991), La libertà di andare dove voglio. La mia vita di alpinista (1992), Un modo di vivere in un mondo da vivere (1994) e, insieme ad Alessandro Gogna, K2 (1980).

Dal libro:

Come sono arrivato allo yeti

Lo yeti è l'abitante più famoso dell'Himalaya. Nel 1985, con il titolo Yak e yeti, - il nome di un famoso ristorante di Kathmandu - ho pubblicato le mie riflessioni su un fenomeno che è oggetto di fantasie per circa un terzo dell'umanità.
Lo yeti è una specie di creatura fiabesca, che compare in molti racconti sull'Himalaya. Benché fossi stato una trentina di volte da quelle parti, non mi era mai capitato di incontrarlo.
Ecco perché, ai miei occhi, la storia dello yeti apparteneva all'universo della leggenda; fino a che, nel 1986, trovandomi nel Tibet orientale, non incontrai un animale che sul piano zoologico non sapevo come collocare. Era forse lo yeti di cui parlavano gli abitanti del luogo?
Dapprima dubitai che allo yeti della leggenda corrispondesse un animale in carne e ossa; ma poi constatai così tante coincidenze tra il modo in cui gli abitanti dell'Himalaya si figuravano lo yeti e l'animale che osservai a più riprese nell'arco di un decennio, che decisi di andare più a fondo della questione: continuai così a cercare storie, esemplari imbalsamati, reliquie, tracce di vita dello yeti in Bhutan, Sikkim, India settentrionale, Nepal, Siberia, e in particolare in Tibet.
Scoprii così che anche in Asia centrale il mito dello yeti era connesso con la neve e il ghiaccio, con l'origine dell'uomo e la sua natura animale. Fu allora che cominciai a domandarmi se dietro quel mito non si nascondesse un orso.
I nostri orsi bruni, la cui origine come specie risaliva agli inizi dell'era glaciale, appartenevano al paesaggio della natura invernale e rivelavano modelli di comportamento simili a quelli dell'uomo. Erano diffusi anche nelle più remote regioni polari, e i miti legati alla figura dell'orso, simboleggiati dalla costellazione dell'Orsa maggiore, erano esistiti in tutte le civiltà. Forse sulle alture dell'Asia centrale, ai margini della natura incontaminata, l'orso bruno esisteva realmente come animale e al tempo stesso era rimasto vivo, come "antenato" dell'uomo, negli strati più profondi della coscienza umana. Quale che fosse la risposta, sapevo che quegli animali, là dove ancora ai nostri giorni entravano concretamente nella vita quotidiana dell'uomo, avevano conservato una loro dignità.
Esistevano dunque vari ponti per superare l'abisso che separava l'uomo dall'orso: la tradizione, la paura e il rispetto.
L'uomo non era mai riuscito ad addomesticare gli orsi che incontrava nel suo ambiente di vita; forse per questo li considerava in qualche modo suoi simili? Astuti e bonari, coraggiosi e diretti, forse anche nel modo di lottare. E può darsi che l'uomo si rapportasse religiosamente all'orso solo nella misura in cui lo percepiva come antagonista all'interno del proprio spazio vitale.
Il raro orso tibetano, sempre che ne esistessero ancora degli esemplari, era più vicino all'uomo di qualsiasi altro animale selvatico. Per questa sua affinità - è un plantigrado, si cura dei piccoli per un periodo di sei anni, ha un atteggiamento battagliero - si era conquistato un posto particolare nella coscienza umana. Questo era forse accaduto perché, per la sua duplice natura, si situava su un piano superiore rispetto all'uomo? Era forse considerato un messaggero degli dei, un tempo decaduto dalla posizione eretta, che veniva presso gli uomini nel suo aspetto animale?
Per dimostrare che solo gli orsi avevano potuto alimentare il mito dello yeti, dovevo dapprima trovarli, poi studiarne il comportamento e infine documentare lo stretto legame che li univa all'uomo. E solo un orso che vivesse nell'immediata prossimità dell'uomo poteva, per la sua duplice natura, occupare un posto particolare nella sua coscienza. L'esistenza di un legame particolare era testimoniato anche dal fatto che nella produzione mitologica l'orso era sempre stato elevato al rango di uomo, quasi che la sua specie un tempo fosse stata una specie umana.
Con la progressiva avanzata del turismo in quelle regioni, gli animali che rifuggono il rumore e l'agitazione incominciarono a disertarle. Il loro numero diminuì, e, nel corso dei secoli, con il peggiorare delle condizioni di vita, si ridussero anche le dimensioni della specie. Nel frattempo, nel Tibet orientale, dove gli animali trovavano carne a sufficienza per nutrirsi, gli esemplari erano diventati grandi il doppio rispetto a quelli delle regioni a ovest dell'Himalaya, che passavano tutto l'inverno in letargo.
Gli ultimi esemplari di questa specie animale - che senza dubbio è a rischio di estinzione - si erano ritirati fin nelle più remote valli di montagna.
E' lì che li ho seguiti. E' lì che ho capito che il termine "yeti", da un lato è un'espressione unificante che include tutti i mostri che abbiano mai popolato l'Himalaya; dall'altro, oltre che una realtà zoologica, designa anche l'insieme delle rappresentazioni che hanno alimentato la relativa leggenda. L'immagine che più gli si avvicinava era quella figura imbalsamata che vidi e fotografai in un monastero lamaista del Tibet orientale quando ormai ero quasi arrivato alla fine delle mie ricerche. Era appesa, accanto a uno yak imbalsamato, sopra l'ingresso principale della gompa, la sala di preghiera principale: sembrava quasi che i due mostri avessero la funzione di trattenere i visitatori importuni dal penetrare nei locali di meditazione.
Sull'origine della leggenda dello yeti cominciai a indagare nel 1986, dopo che nel mese di luglio, durante un pericoloso viaggio nel Tibet orientale, mi ero imbattuto in un grande bipede che corrispondeva allo yeti quale lo descrivevano gli sherpa: più grande di un uomo, con pelo lungo e ispido, ma non un orso dal collare. Fino a quel momento anch'io avevo giudicato fantastiche le storie che si raccontavano sullo yeti, oppure le avevo interpretate come manovre di diversione da parte di alpinisti che tornavano a casa senza avere "conquistato una vetta", ma con una nuova "storia sullo yeti".
Fu nell'isolamento delle più sperdute regioni tibetane che avvistai per la prima volta uno yeti. Per gli abitanti dell'Himalaya un simile incontro era foriero di sciagura: chi non perdeva la vita sul momento era comunque destinato alla morte. Forse anche per questo era tanto difficile avere informazioni dirette sullo yeti: chi avrebbe ammesso di avere incontrato quel mostro, se ciò corrispondeva a una maledizione mortale? In realtà, ben più terrificante del mostro è l'uomo, che è quasi riuscito a sterminare quel raro animale.
Lo yeti in carne e ossa non era un essere umano e neppure un uomo delle nevi, bensì un animale. Ma che genere di animale? I timorosi abitanti delle regioni di Kham e Amdo lo chiamavano tshemo.
Cosa si celava dietro la leggenda dello yeti? Forse una scimmia antropomorfa? Sentivo che con la ragione occidentale era impossibile riuscire ad afferrare la questione. La scienza moderna poteva al massimo accettare lo yeti come una specie animale sconosciuta. Ma, in tempi di turismo di massa, una scimmia antropomorfa non sarebbe già stata classificata inequivocabilmente da tempo? Dopotutto centinaia di migliaia di persone si recavano ogni anno nell'Himalaya. Oppure il fantasma dello yeti era nato come proiezione di un'umanità colta, intenta alla ricerca di se stessa e delle proprie origini?
Tutti gli interrogativi suscitati dallo yeti riconducevano anche, in modo non secondario, al divario che esiste tra la visione razionale del mondo e il fenomeno della natura selvaggia: avevo parlato di questo con il Dalai Lama, e ci eravamo trovati pienamente d'accordo.
Forse la leggenda dello yeti è veramente frutto della contraddizione venutasi a creare tra la natura umana e la natura animale. Dal canto mio, ero sempre meno interessato a quello che gli studiosi e gli alpinisti erano riusciti a inventarsi nell'arco di un secolo. L'immagine occidentale dello yeti, non trascurabilmente ispirata dal desiderio di figurarsi una forma umana primitiva, a metà strada tra l'uomo e l'animale, non faceva che distogliere l'attenzione dalla realtà zoologica dello yeti quale era noto agli abitanti dell'Himalaya. Mi sembrava quindi indispensabile osservare direttamente sul posto l'animale che era all'origine della leggenda.
Perché in Occidente lo yeti era diventato una figura comica? Perché, nel lungo tragitto dalle montagne dell'Asia fino a noi, la leggenda era stata distorta, gonfiata ed europeizzata in modo grottesco. Oggi, per molti di noi, lo yeti è una specie di King Kong himalayano.
Dopo i due viaggi del 1987, in Bhutan e nell'Hindukush, nel 1988 ripresi la ricerca dello yeti nelle selvagge montagne tra Amdo e il Kham. Lì, soltanto per un attimo, all'imbrunire, vidi due esemplari stagliarsi ai margini del bosco.
Col tempo capii che per gli abitanti delle montagne lo yeti era anche una sorta di figura antitetica all'uomo percepito nella sua imperfezione. Su di esso proiettavano paure e desideri: di tutti i loro limiti - la dipendenza dalla comunità del villaggio, la scarsa robustezza del corpo, la difficoltà nel respirare alle altitudini estreme del loro ambiente di vita - quell'essere immaginario era privo. Al sogno dell'immagine antitetica seguiva però immancabilmente l'atterrita coscienza della propria inadeguatezza: diversamente dallo yeti l'uomo non sapeva correre velocemente sulle morene o sulle distese di ghiaccio, non sapeva afferrare i pesci a mani nude nei torrenti glaciali, non poteva dormire all'aperto durante le tempeste di neve invernali.
In Bhutan avevo trovato un "giovane yeti" imbalsamato, ma nessuna prova dell'esistenza di yeti viventi. Dovevo quindi fare in modo di avvicinare il più possibile la leggenda alla realtà.
Nell'inverno 1992-93 mi fermai in Nepal per cercare esemplari di yeti nelle regioni di Solo Khumbu, Mustang, Manang, Dolpo e Beding.
In quel periodo, girando per l'Himalaya a fare domande sullo yeti, entrando nelle capanne nere di fuliggine di quei minuscoli villaggi lontani dai centri abitati, non potei fare a meno di interrogarmi sull'ambiente in cui vivevano quelle genti di montagna. C'era forse quel labirinto di gole, altopiani, ripidi pendii, in cui gli uomini erano come prigionieri, all'origine di tutte le loro fantasie? Quegli uomini dovevano affrontare i pericoli dell'ambiente, le catastrofi naturali, i problemi di sopravvivenza, da quando venivano al mondo a quando esalavano l'ultimo respiro. Mi chiedevo se la leggenda dello yeti, che non cessava di essere raccontata e arricchita di nuovi dettagli, non fosse semplicemente l'eco della loro storia.
Il termine tshemo o tshemong, oppure dremo nelle regioni più a ovest, indicava un orso delle nevi o uomo-orso: un animale notturno, avvezzo all'ambiente antropizzato, che appariva all'uomo in condizioni di buio, sicché questi ne poteva intuire al massimo i contorni. Questo orso bruno, da non confondersi con l'orso dal collare, si presentava perlopiù nella postura difensiva - eretto sulle zampe posteriori - e in genere si dava rapidamente alla fuga. Ma la sua apparizione di solito inaspettata e minacciosa davanti a uomini isolati è stata forse il motivo per cui l'immaginazione degli indigeni ne ha fatto un "mostro", lo yeti della leggenda, e, in Occidente, l'"abominevole uomo delle nevi". Chi si è imbattuto in questo animale selvatico non dubita della sua esistenza.
Gli abitanti dell'Himalaya si riferivano allo yeti chiamandolo tshemo o dremo o yethe. Disponevano, a seconda del luogo, di una serie di nomi per designare la specie animale che, pur mostrandosi solo raramente, veniva spesso evocata. Le storie che parlavano di quell'animale erano molto più numerose degli avvistamenti reali.
Gli studiosi occidentali dello yeti si sono fatti sempre più imbrigliare dai propri preconcetti. Ogni elemento che stonasse con l'immagine dell'uomo delle nevi veniva sistematicamente trascurato o ignorato; così nel tempo hanno finito per smarrire l'evidenza, e cioè che lo yeti era semplicemente la sintesi della leggenda e dell'animale reale che l'aveva suscitata.
Fu solo grazie alle conversazioni con gli abitanti delle montagne, e a lunghi mesi di osservazione dello tshemo, che riuscii a individuare coincidenze inequivocabili tra quell'animale e lo yeti della leggenda.
Che gli yeti, come gli tshemo, uccidessero gli yak rispondeva alla realtà e alla leggenda quanto il fatto che le orme che lasciavano erano sempre impronte di bipede. I tibetani dei monti del Kham raccontavano a proposito dello tshemo le stesse storie che gli sherpa del Solo Khumbu mi avevano raccontato sullo yeti.
Quando, nei monti del Kham, seguii le orme del "Gigante nero", che aveva sempre badato a posare le zampe posteriori esattamente nelle orme lasciate da quelle anteriori, capii che solo lo tshemo poteva essere lo yeti.
Dopo aver conosciuto l'aspetto dell'"orso delle nevi" o "uomo-orso", mi interessai più da vicino al suo comportamento e al modo in cui vi si rapportavano gli indigeni. Mi chiesi anche se lo yeti reale, chiamato tshemo nel Tibet orientale, non fosse semplicemente un sussidio mnemonico per mezzo del quale gli abitanti dell'Himalaya "ricordavano" specie animali - per esempio le scimmie antropomorfe - che vivevano tra le montagne più alte del mondo prima dell'avvento dell'uomo. Poteva ancora esistere in Tibet una sorta di ricordo collettivo dei primi abitanti dell'Himalaya, che risuonava nelle leggende, nelle paure, nei miti? Questa ipotesi non era da escludere. Lo yeti, comunque, era molto di più che non il mero fenomeno zoologico conosciuto come tshemo.
Certo, le immagini che qui avete modo di osservare, e le esperienze di cui vi ho raccontato, cambieranno la storia dello yeti. Ma il ricco patrimonio di storie e immagini dell'"uomo delle nevi" che è custodito nell'Himalaya continuerà a mantenere la sua forza. E' impossibile uccidere una leggenda, quale che sia la sua origine, illuminandone la storia. Al contrario, il mito dello yeti si arricchirà di ulteriori elementi.
Lo yeti non si è mai preoccupato di noi; sa che esistiamo, ma solo a livello istintivo. Noi, invece, abbiamo di lui una duplice percezione: possiamo vederlo come un animale estraneo a ogni forma di civiltà, e al tempo stesso lo serbiamo nella fantasia come un essere leggendario; ma solo la presenza contemporanea dei due aspetti dà forma alla sua piena realtà. All'immagine del temibile yeti, partorita dall'immaginazione delle popolazioni seminomadi che da secoli vivono in armonia con el divinità della natura nelle foreste e tra i ghiacci dell'Himalaya, si addice, sul piano zoologico, solo lo tshemo o dremo...
Renderò conto, nel più accurato dei modi, di tutto ciò che ho visto e trovato, di tutte le esperienze che ho vissuto durante i dodici anni in cui ho cercato lo yeti. E se talvolta mancherò di precisione nell'indicare nome e località, sarà dovuto alla mia volontà di non indirizzare flussi di turisti là dove, anche un domani, tshemo, dremo, riti, tshute e yeti avranno bisogno di un habitat incontaminato.

Questo libro risolve sostanzialmente l'enigma dello yeti, ma non può e non vuole toccare il mito dell'uomo delle nevi. Quel mito deve restare qual era, perché il mito è sempre più forte della realtà.



 

YETI - IL FILM

 

Amy e lo Yeti

To catch a Yeti (1993)

Regia: Bob Keen
Durata: 84'
Cast: Meat Loaf
Chantallese Kent
Jim Gordon
Leigh Lewis
Rick Howland
Commento Un enorme essere viene trovato nell'Artico, ancora congelato nel ghiaccio. Un industriale, Morgan Hunnicut, ne decide il recupero e il ritorno in vita, con l'aiuto dell'amico scienziato. L'arrivo in città concorre a far pubblicità alle sue aziende, ma la creatura sfugge al suo controllo e i concorrenti di Hunnicut stanno tramando in suo sfavore, diffondendo malelingue sullo Yeti. Alla fine l'essere si fa giustizia da solo e far ritorno nel suo mondo incontaminato, in mezzo alle montagne dell'Himalaya. Il film non è granché, tanto riprende dal fratello maggiore (la mano gigantesca e pelosa che prende la ragazza, i flash dei fotografi che fanno impazzire la creatura) e la malriuscita degli effetti speciali (certe volte lo Yeti sembra un fantasma, da quanto poco coprenti sono le sovrapposizioni) non lo aiutano di certo. Il volto dello Yeti appartiene a Mimmo Crao, all'epoca noto per la pubblicità di un olio d'oliva.

 

J.F.K. Mussolini Area 51 Bermude Atlantide LochNess Dracula
Autopsia Yeti Isola di Pasqua  Piramidi Alchimia